Al di là di ogni Costrizione di Spazio e di Tempo

Un dialogo sulla performance tra Mike Parr ed Eugenio Viola

Eugenio Viola: Caro Mike, sei un artista autodidatta e hai più volte affermato di non aver avuto alcun contatto con l’arte durante la tua infanzia, nonostante tua madre fosse un’artista. È piuttosto interessante, perché sei diventato uno degli artisti australiani più rispettati, ma controversi, e anche tua sorella, Julie Rrap, è artista. Come è avvenuto il tuo incontro con l’arte?

Mike Parr: Mia madre aveva studiato arte, ma nella nostra famiglia era mio padre la figura dominante e i disegni e i dipinti di mia madre erano una sorta di attività nascosta che esplodeva improvvisamente quando lui scompariva per i suoi lunghi viaggi. Nessuno della famiglia in realtà capiva il senso di questi viaggi. Credo che l’improvvisa esplosione della pittura e del disegno di mia madre fosse misteriosa come le sparizioni di mio padre. Questa arte della scomparsa deve aver avuto una certa risonanza per un ragazzo a cui mancava il braccio sinistro e, identificandomi con mia madre, mi sono molto interessato a un’attività che mio padre bandiva come irrazionale e senza senso, perché ho sentito subito che la mia disabilità era per mio padre fonte di grande dolore inespresso. Mia madre non ha mai parlato del suo disegnare e della sua pittura. Non aveva delle opinioni intellettuali sull’arte. Anche sua madre aveva dipinto a livello amatoriale, così l’arte per mia madre sembrava essere un modo di affermare la profonda continuità della memoria. Questo aspetto artesiano e trasmissibile dell’arte mi ha sempre interessato. Avevo anche bisogno di dare un senso alla mia differenza. Doveva essere situata in un modo che funzionava per me, non tradotta per la convenienza degli altri e l’intensità feroce & gli studi floreali intrecciati ai segreti di mia madre mi hanno aiutato a immaginare una giungla di altri desideri. Significa che quando ho abbandonato gli studi di legge progettati per me da mio padre, l’arte è stata un’alternativa molto naturale. Non ho mai immaginato di dover studiare qualcosa, anche se in seguito ho “studiato” intensamente. Ho parlato a lungo in altre occasioni di questo “naturalismo dell’impulso” e del rifiuto compulsivo dell’autorità. In un certo senso questo significava che ero predisposto ad essere un artista performativo. Julie è più giovane di cinque anni, ma ero io il rompighiaccio in famiglia.

EV: Negli anni ’60 avevi a che fare con la poesia. È abbastanza esplicito il tuo legame con il Wiener Gruppe e con le pratiche, per esempio, di Friedrich Achleitner, H.C. Artmann, Konrad Bayer e Gerhard Rühm. Perché improvvisamente hai smesso di occuparti di poesia?

MP: Dal 1965 al 1969 sono stato un poeta convenzionale e sintattico. La rottura è avvenuta quando ho avuto la mia prima macchina da scrivere alla fine degli anni Sessanta. Da quel momento in poi la macchina è diventata il mio mezzo piuttosto che la poesia in quanto tale, perché la macchina imponeva un ordine che mi affascinava. Sono mancino [è stato accertato solo di recente], ma la mia mano sinistra è scomparsa. Questo fatidico intreccio domina evidentemente la mia scrittura a mano, ma la macchina da scrivere arrestava immediatamente la parola ed era questa vistosità a produrre l’auto-riflessività dei miei “pre-poemi e situazioni di parole” [non mi riferivo alle mie pièce come poesia Concreta].

L’idea che la mia “poesia concreta” negli anni ’60 provenga in modo esplicito dal Wiener Gruppe è davvero fantasiosa. Come avrei potuto accedere a questi poeti tedeschi non tradotti? Ora parlo un po’ di tedesco stentato, ma allora non lo conoscevo assolutamente. All’epoca nessuno del mondo dell’arte australiano sapeva del Wiener Gruppe e neppure Alan Riddell, allora l’unico noto poeta concreto in Australia, non dà alcuna indicazione che il suo lavoro sia stato influenzato dagli austriaci. La linea di trasmissione nel suo caso fu probabilmente Ian Hamilton-Finlay, dato che Riddell fa riferimento molto alla sua formazione scozzese.

Riddell aveva pubblicato un’opera intitolata “Revolver”, una versione semplice, se ricordo bene, di quella parola che ruota per produrre un foro ed in seguito una versione più elaborata “3-D”. La versione semplice era sufficiente, ma essendo un letterato le immagini sono importanti!

Una delle mie prime poesie concrete Stockpile è evidentemente in debito con la struttura del suo poema. Sono sicuro che ne ero consapevole, invece un’altra pièce iniziale come REDREAD, con la ripetizione fusa delle parole “red” (rosso) e “read” (letto) che produce “dread” (terrore), come un campo di colore rosso, va oltre qualsiasi cosa fatta dagli australiani in quel periodo, perché parodia nel modo più evidente la paura generalizzata del comunismo che allora infestava la nostra vita culturale. Inoltre, decostruisce in modo spietato la pittura astratta a campi di colore an sich (in sé e per sé), perché sottolinea l’ideologia conformista che questi pittori astratti non volevano vedere, riconoscere o discutere. Stavo criticando la pittura di influenza americana alla Central Street Gallery di Sydney 1966-1969, che era sulla bocca di tutti ed era il contesto prevalente per la pittura avanzata in città, ma INHIBODRESS nasceva dalla politica della guerra del Vietnam [ero un evaso dalla leva, avendo rifiutato di registrarmi pur sapendo benissimo che sarei stato esonerato, di conseguenza mettendo in imbarazzo le autorità]. Questo tipo di impegno improvvisato nell’attualità era un anatema per i mandarini della cultura dell’epoca.

Il foro al centro di “Revolver” è una sorta di vuoto generalizzato dell’Avanguardia, per di più molto letterario! La poesia concreta, almeno nella mia esperienza, era decisamente apolitica. L’influenza sedimentata di Wittgenstein è evidente. Anch’io sono stato influenzato da Wittgenstein, ma all’inizio del 1970 stavo dichiarando di essermi allontanato da “pre-poesie e situazioni di parole” per passare all’Arte Concettuale. Wall Definition nasceva come una performance di dattilografia durante la mia prima mostra di Word Situations a INHIBODRESS nel febbraio 1971. Wall Definition, accompagnata da Bloodline e Quarto Window Installation, è stata installata a INHIBODRESS nel luglio 1971.

Bloodline è un esempio costruttivo, nel contesto di questa discussione sulle influenze, perché è così apertamente politico e personale. Ho digitato la parola “bloodline” come una linea continua al centro ottico per tutta la larghezza di un foglio di carta dattilografica Quarto, progettando una configurazione che mi ha permesso di continuare a digitare la parola senza interruzioni. Se la parola terminava con “bloodli…” all’estremità destra della pagina, “… ne” poteva essere ripreso all’inizio della pagina successiva… e tutti questi fogli uniti in modo specifico creavano una linea di carta lunga quanto la parete di INHIBODRESS. L’opera si è conclusa in modo performativo con l’incisione del mio pollice e il disegno di una linea di sangue lungo la linea della parola… Retoricamente, se lo sviluppo [e ce ne sono molti altri che posso descrivere] rappresentato da Bloodline è dovuto al Wiener Gruppe, allora non lo saprei nemmeno ora! È la virulenza di quest’opera e la sua implacabile materialità a dover far riflettere. Sto rompendo il linguaggio ed è questa ripetizione della rottura e l’istanziazione spietata della fattualità che definisce tutto il mio lavoro. Perché? Perché le forme fanno rapidamente da argine al contenuto e la performance è la mia via d’uscita.

EV: Vuoi dirmi qualcosa di più su Wall Definition, che è il tuo primo testo performativo?

MP: Ho iniziato questo lavoro come risposta critica alla famosa “definizione di una sedia, una sedia vera e una fotografia di una sedia” di Joseph Kosuth. La natura tautologica della sua pièce sembrava mettere a nudo il Minimalismo. Padre, Figlio e Spirito Santo. Wittgenstein nel suo momento più magistrale e prescrittivo, ma Wall Definition ha portato questo processo di definizione verso un altro estremo, perché le mie definizioni di tutte le parole in una definizione della parola “wall” (muro) [Funk & Wagnalls Standard Dictionary regalatomi nel 1968 da mio padre con il suggerimento di “usarlo per raddrizzare la mia mente”] ha iniziato quello che in realtà era un processo senza fine, perché non c’era bisogno di fermarsi solo a una definizione della definizione… una parete davvero grande avrebbe potuto estendere la procedura all’infinito. In effetti, dopo Wall Definition ho iniziato a scrivere un’altra opera, intitolata A Portion of the Wall [Incomplete]. Il lavoro ha raggiunto molte altre centinaia di pagine, ma è rimasto incompleto ed è entrato nella collezione della National Gallery of Victoria come A Portion of the Wall [Incomplete]. Ho iniziato questa opera attratto dall’ironia del pensiero che “una porzione” potesse essere maggiore del tutto. L’incompletezza potrebbe solo aggiungere un senso a tutto ciò.

Ad affascinarmi è stato l’aspetto inaffrontabile di questo processo di definizione e la “mancanza di ragionamento” del compito. La macchina da scrivere diventa una macchina per non avere senso ed è questa dialettica padrone/schiavo che ha trasformato Wall Definition in un copione performativo. All’inizio ho annunciato che avrei battuto a macchina per 40 giorni e ho cominciato il lavoro, come ho già detto, come performance per accompagnare la mia prima installazione di Word Situations a Inhibodress. Mi sono seduto su una sedia bianca ad un tavolo bianco, a scrivere mentre i visitatori entravano nello spazio della galleria. Il curatore e critico australiano Daniel Thomas, nella sua rubrica sul giornale, ha osservato che “la mia giacca sportiva grigia era appropriata, ma i miei pantaloni verdi erano sbagliati”. Questo consiglio sartoriale ha attirato la mia attenzione perché sembrava estendere la tensione tra il mio lavoro e l’opera di Kosuth.

La digitazione continua aggiungeva anche una dimensione uditiva molto interessante. Mi stavo rendendo conto dell’impatto di un nuovo tipo di presenza che avrebbe iniziato a definire la mia nozione di performance art, ma allora un lavoro come questo era una “Idea Demonstration”. Era la mia etichetta per queste attività emergenti. Digitare per 40 giorni mi ha fatto pensare a Cristo nel deserto. Cristo che vaga nel deserto, in compagnia delle astuzie di Satana, sembrava molto lontano dalla disposizione fissa della gerarchia di Kosuth. In quel contesto Wall Definition è diventata un’arma di distruzione di massa.

EV: Sei una figura di spicco nella storia della performance art australiana. So che non ti piace questa espressione, ma puoi essere considerato “il padrino della performance art australiana”. Tuttavia, preferisco contestualizzare la tua traiettoria lunga 50 anni nella più ampia storia internazionale della performance art. Quando hai iniziato a occuparti di performance? Quale aspetto di questo medium ti ha affascinato di più?

MP: “Padrino” mi disturba particolarmente perché sia “Dio” che “padre” sono istituzioni a cui mi sento costretto a resistere. Le mie prime performance risalgono a Wall Definition, Bloodline del 1971, dove le performance producono un effetto che è parte integrante della forma dell’opera… un’intrusione materiale decisiva. Un’importante Word Situation che ha preceduto questi lavori è stata The Surface is Only Skin Deep. Ho digitato questa frase come un blocco continuo di testo [rosso] ed ho continuato a sovrascrivere fino a quando testo e carta si sono fusi e la superficie del testo ha cominciato a rompersi come la pelle che si stacca dalla superficie di un corpo. Rompere il linguaggio in questo modo, utilizzando la macchina da scrivere per masticare le parole mi ha portato direttamente al mio corpo.

Le prime performance sono state Self-Circles che ho realizzato nell’agosto/settembre 1971. Sono diventate i prototipi per molte delle opere incluse in Idea Demonstrations giugno 1972, il film delle 23 performance eseguite da Peter Kennedy e da me all’indomani della mostra congiunta Trans-Art 1: Idea Demonstrations tenutasi a INHIBODRESS all’inizio di giugno 1972. Durante quella mostra ho esposto 75 Programmes & Investigations come un’opera con delle diapositive. Ho anche proiettato una documentazione in 16mm di Hold your breath for as long as possible / Hold your finger in a candle flame for as long. Queste performance erano state realizzate in una sessione a porte chiuse a INHIBODRESS all’inizio del 1972 ed è stato il mio lavoro con i film-makers Ian Stocks e Aggy Read a portarmi direttamente a Idea Demonstrations.

Penso di dover descrivere la presentazione di queste performance filmiche. Trans-Art 1: Idea Demonstrations è stata una mostra interessante. Abbiamo installato dei tavoli e mostrato degli schedari dipinti di bianco contenenti le scritture delle performance, le “partiture” musicali, la corrispondenza. Ho anche esposto il primo volume dei miei NOTEBOOKS 1971-1972 e alle pareti abbiamo presentato dei diagrammi non incorniciati per le opere proposte [ho composto una partitura per animali in cui un’intera cacofonia di suoni doveva essere prodotta al di là della gamma dell’udito umano…ho studiato la gamma superiore di frequenze per una serie di specie animali… da condurre in uno zoo in modo che gli animali rispondessero coralmente all’edificazione con un pubblico invitato]. Peter Kennedy ha installato una batteria auto-cannibalizzante [feedback a un’enorme emissione di decibel], e una serie di mie diapositive, da 75 Programmes & Investigations a Earth Book a Blacked-out Book & 3 Weeks Annual Leave, erano a disposizione del pubblico in caroselli da selezionare per la proiezione. La mostra era disponibile come una biblioteca o un centro risorse e noi eravamo sempre a disposizione per discutere le opere con il pubblico. Quando i visitatori chiedevano di vedere “Breath & Finger“, le luci della galleria si spegnevano, il proiettore si attivava e nell’oscurità la straordinaria crudezza della documentazione della performance veniva proiettata in grande sulla parete. Le luci si accendevano e venivano mostrate altre parti della mostra.

Descrivo questo mix per dimostrare il concetto di comunicazione, agitazione e “valore d’uso” applicato al lavoro collaborativo di INHIBODRESS. Lavorando in questo modo ho inevitabilmente soppesato l’impatto e le implicazioni di un’opera basata sulla performance in un contesto di gruppo e sono state queste pratiche a distinguermi come artista performativo. Ad esempio, i “concerti” che ho realizzato per la Galerie Impact di Losanna e per la Galerie Media di Neuchatel nel giugno 1973 hanno ampliato l’uso dei media e il feedback. Ho ricollocato i monitor nel dominio del pubblico ed ho utilizzato una trasmissione video in diretta per abbattere costantemente la distanza tra performer e pubblico, ad esempio in un caso mi sono marchiato con la parola ARTIST invitando i membri del pubblico a farsi avanti e ad essere accreditati anche loro come artisti. Il doppio legame e il processo di traduzione istantanea [inglese/francese] è una dimensione divertente e conflittuale del lavoro. Ho presentato 15 o più nuove performance sia a Losanna che a Neuchatel e “agitazione/provocazione/comunicazione” significava che stavo utilizzando la tecnologia in un modo molto diverso dal resto della schiera mono-strutturale internazionale.

EV: La tua prima performance documentata in video è Pushing a camera over a hill, 1971. È la tua prima performance? Vuoi dirmi qualcosa di più su questa pièce?

MP: È arrivata alla fine del 1971, dopo i Self-Circles. L’ho fatta due volte. Una prima volta con una videocamera Akai con microfono incorporato e una seconda volta, una settimana o due dopo, con una Bolex, accompagnato da un fonoregistratore [Aggy Read] che portava il registratore accanto a me. Quella è stata l’ultima volta che ho utilizzato il sistema Akai. Da quel momento in poi il mio medium di registrazione principale è stato la pellicola 16mm. Pensavo che Pushing a camera over a hill fosse un film di guerra. Stringere il terreno come i vietcong, salire la collina, il momento visionario dello spazio profondo mentre attraversiamo la vetta e poi la discesa accelerata attraverso tutta quell’erba rumorosa verso un pick-up che ci attende, osservandoci dall’interno del bosco di alberi, accelerando verso l’esterno e allontanandosi mentre la cinepresa si avvicina. Quelle tangenti mentre attraversavamo la vetta, la scena lontana e indefinita mentre l’inquadratura entra e esce dal fuoco, i fiori del cardo bianco che si piegano al vento, sono i momenti estatici di rivelazione che vivo in tutte le mie performance.

EV: Nel dicembre 1970, hai co-fondato il primo spazio gestito da artisti in Australia con i colleghi Peter Kennedy e Tim Johnson. ‘Inhibodress’ è stato un collettivo di artisti e una galleria sperimentale a Sydney. All’epoca è stata una piattaforma leader che collegava la pratica concettuale australiana con il lavoro dei media sperimentali come film, performance, suono, video, non oggettività e mail art, associandosi attivamente con le reti internazionali di artisti concettuali. Anche se è durato solo un paio d’anni, Inhibodress è stato molto influente, introducendo delle esperienze dirette di nuove forme d’arte sperimentali agli artisti e al pubblico australiani. Presumo che in Australia non sia stato affatto facile essere un artista performativo nei primi anni ’70. Vuoi dirmi di più su questa esperienza? Quali sono state le tue influenze all’epoca? E i tuoi coetanei australiani? C’erano molte donne che si occupavano di performance in quel periodo?

MP: Sì, non è stato facile essere un artista performativo in Australia nei primi anni Settanta, ma vista la spavalderia underground di INHIBODRESS non è stato nemmeno difficile, perché l’incomprensione e l’ostilità dell’establishment alimentavano il nostro senso di indipendenza. Il problema dell’isolamento è emerso più tardi, dopo il mio ritorno dall’Europa verso la fine del 1973. La performance art, come avevo scoperto, era ancora un’attività molto underground a Londra, Amsterdam, Parigi, Colonia, Oldenburg, Bad Salzdetfurth, Losanna, Neuchatel, Budapest, Varsavia, Vienna [una selezione delle città dove ho trascorso del tempo per incontrare e lavorare con le persone chiave], ma gli artisti in questi centri si conoscevano tra loro, erano supportati da un senso di connessione e da una storia che risaliva a Fluxus, Happenings, Aktionismus, Informel.

Una rete molto importante per INHIBODRESS è stata fornita dall’ “Eternal Network” di David Mayor [ricondotto da Tim Johnson a INHIBODRESS sotto forma di fogli di carta riciclata all’inizio del 1971] che ci mise in contatto con molti artisti e scene underground in Europa, Nord e Sud America. Usavamo la posta ordinaria a INHIBODRESS come oggi utilizziamo Internet. Aveva la stessa funzione e naturalmente era anche una forma, se si pensa alla “mail art”. Quindi sì, INHIBODRESS è stato connesso fin dall’inizio del 1971 e i contatti stabiliti allora sono stati la base per la fase di smaterializzazione di INHIBODRESS quando Peter Kennedy e io, ognuno a modo suo, abbiamo portato il nostro archivio all’estero.

Allora la connessione era la chiave, ma dal momento che eravamo tutti artisti molto giovani, emergenti per così dire dal ventre del mondo dell’arte “globale”, il collegamento con i nostri compagni a livello internazionale era orizzontale e paritario. Questa è stata l’importanza di INHIBODRESS nel contesto australiano. Avevamo avviato uno scambio di cui eravamo gli autori e avevamo inventato una forma di “istituzionalità” indipendente per rendere la rottura il più dinamica e indipendente possibile. Un processo davvero organico. Molto conflittuale, però, a livello dei componenti di INHIBODRESS: tensioni continue, soci che se ne andavano, nuovi membri che si aggiungevano, battaglie con il Comune sullo status della nostra occupazione, dispute con i membri sul triumvirato Kennedy / Parr / Johnson. Una Weltanschauung molto diversa da quella attuale dell’arte australiana. Più cruda, più sospettosa della cultura “ufficiale”, profondamente influenzata anche dal razionalismo dell’arte concettuale. Eravamo inoltre ingenuamente idealisti. Credevo davvero che gli artisti dovessero unirsi per dare legittimità alle nuove idee e che le “nuove idee” implicassero delle nuove forme… nuove forme di tipo inedito. Sostenevo con forza che l’ideologia precedesse l’arte e che le “nuove forme” dovessero avere un impatto sociale e politico decisivo. Da questo punto di vista sono rimasto un giovane artista. Ancora oggi in Australia ogni nuova generazione sembra emergere senza alcun legame con la precedente. Credo che questo ci renda una colonia rispetto a noi stessi. La scena europea era molto più ecumenica, “storica”. Quando sono andato a Varsavia, Marek Konieczny e i suoi amici hanno organizzato una cena e invitato gli artisti più importanti delle generazioni precedenti fino al costruttivista Henryk Stazewski, che era lì in sedia a rotelle. Marek mi disse: “Questo è il significato di Avanguardia in Polonia”.

Ma INHIBODRESS è stato anche distruttivo. All’inizio del 1972 eravamo rimasti solo io e Peter Kennedy. C’era una sorta di associazione, ma il divario tra le loro aspettative e il nostro controllo era enorme e la mia arte performativa aveva ormai preso piede e stavo diventando un estremista. Già, questo cominciava a far presagire la rottura del sodalizio Kennedy/Parr, perché il marxismo di Kennedy tendeva alla sociologia, mentre io pensavo che la performance art dovesse andare più a fondo nella direzione di un’ideologia di Nuova Sinistra, con la sua ri-concezione del marxismo nel contesto della psicoanalisi. Meta-psicologia freudiana e analisi dell’abreazione [ero pronto a incontrare il Wiener Aktionismus!]

Dovrei dire di più a questo proposito. Avevo conosciuto il lavoro di Vito Acconci, Dennis Oppenheim, Terry Fox, ma mentre l’eleganza concettuale di questo lavoro mi attraeva, le sue origini nella psicologia della Gestalt americana e nel comportamentismo non rispondevano al mio bisogno di penetrare i disturbi profondi che cominciavano ad emergere attraverso il mio lavoro. Le mie performance sono arrivate in me e si sono sviluppate come una tremenda ossessione in sé stessi, una sensazione di rottura, di dominio. Immense emozioni sgraziate, per cui la mia consapevolezza degli altri è sempre stata goffa, incompleta…

Vorrei dire di più su disturbo psicologico, isolamento e abreazione, ma tu mi hai chiesto dei “coetanei australiani, delle performance di donne artiste australiane”. Jill Orr e Jill Scott mi sono rimaste impresse [così come il lavoro di Frances Barrett e Diana Baker Smith] perché erano praticanti ossessionate e lo apprezzo, ma Jill Orr è emersa verso la fine degli anni ’70 e non ho conosciuto Jill Scott fino agli anni ’80. E poi ovviamente Stelarc, che per me è un compagno, anche se ci incontriamo come dei cani randagi. Siamo agli estremi opposti dello spettro che definisce la performance art degli anni Settanta, perché Stelarc non ha interiorità e questo è un aspetto del suo lavoro che ci divide. Nel contesto australiano vengo spesso citato per aver detto “non è il corpo Stelarc, è il tuo corpo”, perché Stelarc, a mio avviso, è rimasto uno scultore e un tecnologo, che utilizza il suo corpo come un oggetto-elemento.

Una storia, in un certo senso, accattivante. Ricordo chiaramente la sua visita alla mia casa/studio a St Peters, all’improvviso, negli anni ’80 [sic]. L’ho lasciato lì con mia figlia mentre andavo in strada a prendere della birra. Quando sono tornato, mia figlia mi aspettava sulla porta in preda al panico. “Papà”, mi disse, “non farlo”, lanciandomi uno sguardo implorante. Stelarc era seduto al tavolo della cucina. Aveva davanti a sé un braccio meccanico parzialmente assemblato. Stava dicendo a mia figlia che sperava che lui ed io potessimo fare delle performance insieme. Una specie di routine di canzoni e balli Frankensteiniani. Differenze irrisolvibili!

È stato difficile a Sydney… nell’Australia degli anni ’70, perché la comunità degli artisti performativi era [è ancora] molto piccola e frammentata e la performance hard-core non è mai stata accettata. Semplice. Alla fine degli anni ’70 ero sull’orlo della miseria e la gente attraversava la strada per evitarmi.

EV: Anne Marsh indica l’impacchettamento di Little Bay di Christo e Jeanne-Claude e il lavoro di Stelarc nel 1969 come le prime performance in Australia – sei d’accordo?

MP: Sì, ma nessuno di questi artisti, data la mia caratterizzazione del lavoro di Stelarc, ha prodotto delle performance che abbiano una reale rilevanza per il mio lavoro, o per Orr o Scott, o per i giovani artisti performativi di oggi. Il mio contributo credo sia stato quello di capire che la performance art riguarda la comunicazione interpersonale. Ho sostenuto l’estetica dell’oggettivazione, ma ho anche infuso nelle mie forme mono-strutturali una profonda soggettività. Le performance delle donne sono molto simpatetiche per me. Le vulnerabilità e i sentimenti di non identità che mi vengono conferiti da una disabilità visivamente di grande impatto (compensata da una forte e compulsiva affermazione di identità) fanno sì che io sia molto sensibile alla psicologia femminile.

EV: Credo sia importante sottolineare come il tuo lavoro sia totalmente connesso, e negli stessi anni, alle coeve ricerche sul corpo e sulla performance in Europa e in Nord America. Opere come Hold your breath for as long as possible o Hold your finger in a candle flame for as long as possible, entrambe del 1972, sono task performance che hanno a che fare con la resistenza e l’atto “eroico” dell’artista, e sto pensando al lavoro, tra gli altri, di Vito Acconci, Bruce Nauman o Marina Abramović, che ha eseguito con Ulay una task performance simile qualche anno dopo (Breathing In, Breathing Out, 1977-78).

MP: Sì. Ma concentriamoci subito sulle incommensurabili. Connessione e isolamento. Comunanza e differenza. Sono motivato in modo diverso. Ho un differente tipo di immediatezza e visibilità. Conficcato nell’occhio. Questo mi riporta alla disabilità. Ancora oggi, quando presento una grande serie di installazioni/performance, posso ricevere una risposta critica completamente insensibile e distruttiva. Il critico di Sydney John MacDonald non esita a rivelare la sua repulsione, eppure non riconoscerebbe mai la fonte del suo sogghigno che sembra così atavico e insensibile. Ho sperimentato molto di questo ritrarsi nel corso degli anni ed è invariabilmente disonesto. Quindi, le mie performance sono immediatamente diverse da quelle di tutti gli artisti a cui ti riferisci, perché sono un artista performativo con un braccio solo e niente potrebbe essere più visivo di questo; inoltre, le mie performance sono immediatamente sia un confronto che una de-costruzione. L’identità è fortemente affermata ma minata, perché l'”identità”, che costituisce l’intera “scena oggetto” nel caso di quegli altri, nel mio caso è equivoca, masochista, autodistruttiva. Il mio scenario performativo soffre sempre di una “mancanza” visiva e questa mancanza terrorizza l’oggettività dell’arte performativa in sé. Sembra un punto complicato, ma la compostezza e l’integrità del distacco di Marina sono trascendenti, donati da Dio. Un critico come John MacDonald conosce la vulnerabilità essenziale della mia performance art e ai suoi occhi quell’incompletezza mi scredita come artista, perché l’arte che lui vuole è sempre intera [come il marmo bianco del nazionalsocialismo]. La performance art come la mia, suppongo, è intrinsecamente riprovevole perché implica sempre un “rattoppo” e una incipiente decrepitezza emotiva, e a peggiorare le cose, il “rattoppo” nel mio caso prende la forma del linguaggio e dell’analisi compulsiva, così la critica per il critico viene indebolita, diventa, come egli ha già dichiarato in un altro pezzo recente, “un’impossibilità” [non che questo lo fermerà!]È la mia affermazione di autonomia che lo fa impazzire, perché il mio tipo di “cura parlante” fa saltare le scatole stilistiche. Nella terminologia di Zizek, il mio moncherino è un “residuo indivisibile”. L’insolubile immagine residua che tormenta la mente del commentatore onnisciente.

EV: Quanto è stato importante viaggiare all’estero per lo sviluppo della tua pratica?

MP: Molto importante. Mi ha permesso di avere una prospettiva su alcune delle difficoltà che ho menzionato in precedenza, perché negli anni ’70 anche la performance femminista e la nozione di “personale come politico” stavano già iniziando a cambiare radicalmente il concetto di come l’arte funzionava a livello interpersonale e in relazione alla questione dell’ideologia. Marina e Ulay, ad esempio, non sono mai stati “politici” come lo sono io. Il loro lavoro è sempre stato più vicino al modello Concettuale americano ed il loro lavoro relazionale è sempre stato incentrato sul subire la dualità piuttosto che sulla risoluzione radicale, ma io ho capito molto presto che la mia performance art non poteva essere ideale in quel modo perché la propria integrità era compromessa, spezzata in anticipo. I “concerti” svizzeri sono stati molto liberatori, perché ho potuto accostare l’estremizzazione di opere come Tackline [push tacks into your leg until a line of tacks is made up your leg] e Sew buttons onto your chest. Do up your shirt on the buttons a delle pièce molto diverse che coinvolgevano gli spettatori in situazioni che mettevano radicalmente a confronto il proprio ruolo di pubblico; questa dialettica di contrasti che rompeva il menisco dell’arte sacralizzata era intesa dal pubblico europeo come una necessità che spingeva all’estremizzazione dei Concerti [Ice-Cold Installation with Dead Fish & Atrocity Images, per esempio, sosteneva che dopo aver sfogliato dei libri di immagini di atrocità e aver selezionato e strappato le immagini di loro scelta, il pubblico avrebbe dovuto essere battezzato immergendo la testa nei secchi]. Questo ha provocato un furore, ma la mancanza di una lingua comune ha in realtà facilitato la nostra interazione, perché ha ampliato il sensorio della struttura del concerto e ci ha portato al di là del linguaggio convenzionale, e a Losanna le traduzioni in situ performate dal traduttore e artista ungherese Janos Urban sono state esattamente questo, urbane e profondamente empatiche, perché gli svizzeri a differenza del pubblico australiano hanno riconosciuto la mia disabilità come una ragione per l’estremizzazione delle mie idee e il loro coinvolgimento ha sostenuto la fragilità delle mie forme sperimentali.

Rules & Displacement Activities Part I mette fortemente in evidenza questo ruolo formativo del pubblico. Quindi, la complessità della situazione in Europa ha sviluppato un potenziale che mi ha permesso di muovermi in modo molto veloce e con decisione, e il ricordo di questo mi ha sostenuto dopo il mio ritorno a Sydney nel 1973. Senza quei lunghi periodi di lavoro in Europa negli anni ’70 dubito che avrei continuato a lavorare in Australia. I giovani artisti davvero promettenti che frequentavano INHIBODRESS nel 1971, come Neil Evans, David Morissey, Jim MacDonald, Tim Johnson, Ian Milliss e anche il co-direttore di INHIBODRESS, Peter Kennedy, alla fine del 1973 avevano tutti rinunciato a cimentarsi con la performance art. Le mie esperienze europee mi hanno rafforzato. Rafforzato nella mia radicalità, politicizzazione e “incurabilità”. Ero andato oltre INHIBODRESS e l’idea che la performance art fosse solo una forma transitoria.

EV: 150 Programmes and Investigations che hai composto tra il 1971 e il 1972 comprende istruzioni, aforismi, poesie e idee. Questo lavoro è alla base di numerose performance e rimane tuttora una ricca fonte di materiale. Questo lavoro occupa uno spazio ambiguo tra le tue prime prove come poeta e artista performativo. Alcune di queste istruzioni ricordano la poesia concreta, ed i tuoi esperimenti linguistici riecheggiano quelli di artisti come John Baldessari e Sol LeWitt, con le loro istruzioni per disegnare, o la serie di “partiture di eventi” Grapefruit di Yoko Ono. Vuoi parlarmi di quest’opera fondamentale?

MP: La tua descrizione della varietà delle pièce è molto chiara. Le prime istruzioni [non sono raccolte in ordine cronologico] interrompono gli esperimenti linguistici concreti [pre-poems, word situations nel mio lessico] in modo molto calcolato. Il processo di interruzione non è facile da descrivere, se non dicendo che l’auto-riflessività delle Word Situations viene spezzata da una nuova consapevolezza sensoriale. C’è un alone di ansia e l’ordine del programma è quello di contenere e articolare questa ansia in una forma linguistica definita. Quindi, ottenere la giusta scrittura è stata una parte importante del processo ed ho attinto alle mie esperienze di poeta semantico. [L’ambiguità omofonica di Write, Right, Rite è stata la base di una delle mie poesie “Concrete”]. La sintassi, il tempo, la grammatica, l’eufonia sono state tutte considerazioni molto importanti, perché, se le ho azzeccate, ho ottenuto le idee e le sensazioni giuste.

Un altro aspetto del processo è stato ovviamente la natura antologizzata dell’intera opera, perché l’alternanza che tu descrivi tra istruzioni, aforismi, poemi e idee significa che la forma dell’idea fa molto parte del proprio contenuto, e che impulsi e stili di pensiero sono pensati a livelli diversi di astrazione. C’è una sorta di reticolo delle differenze che determina la portata dell’intera opera. Ho pensato che il lettore potesse pensare a delle pièce particolari in relazione agli spazi vuoti tra tutte loro. I vuoti, le ripetizioni e gli spostamenti. Perciò distinguerei la gamma e la natura della collezione, la sua concatenazione di soglie e la sua frattura di parti come propria caratteristica distintiva, perché è un’opera che distribuisce l’enfasi delle sue forme in un modo molto particolare e tale enfasi è tutta incentrata sull’esperienza degli stati corporei, degli impulsi, della correzione, del miglioramento, della conciliazione, dello spostamento come un vocabolario di effetti che è performato pienamente solo con l’arrivo di Rules & Displacement Activities Parts 1 – 111.

cxiii      L’immaginazione dovrebbe esser utilizzata insieme ai fatti.

cxxxiii  Eseguire un’idea.

civi     Mangiare ciò che si legge.

           Registrare il contenuto sonoro

           contenuto dell’opera.

cxxii   Pensare a un certo numero di performance

           la sera.

           Scrivere quelle che si ricordano

           al mattino.

cviii   Distruggerò gli elementi della mia arte dietro compenso.

Ixxxxiv  Tenere dell’acqua nella mano

               il più a lungo possibile.

Addenda

MP: Rileggendo la tua domanda mi viene in mente la parola “ambiguo”. Ambiguo solo col senno di poi, all’epoca la concatenazione di impulsi e pensieri differenti, che portava a diverse strutture di osservazione, pensiero e immaginazione, era generativa. Ha permesso all’ansia di venire in superficie, ansia che veniva letteralmente schiacciata dal processo di digitazione dei pre-poems/words situations. Lo zeitgeist (spirito del tempo) era importante, naturalmente. Il crescente elenco dei collaboratori internazionali di INHIBODRESS significava che sapevo cosa stava succedendo, ma questa era solo la forma ovvia del significato del lavoro, molto più importante era ciò che questo lavoro mi permetteva di fare. Riscrivere l’idea o l’impulso fino a renderlo chiaro significava gestire l’ansia che vi era associata e una volta che i programmi o le indagini erano linguisticamente risolte ero pronto a iniziare a performarle. Pre-poems & words situations erano un modo per non pensare. Al di là dell’idea iniziale, la digitazione era un’attività di spostamento pura e semplice. Infinitamente tautologica, soporifera, distaccata. Avevo cominciato a vedere il lavoro concettuale di Kosuth come una specie di pala d’altare. Tutte le persone che hai citato espongono le loro forme come “stili di volontà radicale”. Le mie concatenazioni volevano sconvolgere le apparenze, abbattere la distanza reverenziale, rendere la performance una sorta di necessità urgente… assumere il rischio al limite del tempo presente. La differenza tra il comporre Arrange for a friend to bite into your shoulder. He or she should continue biting for as long as possible or until their mouth is filled with blood e la performance vera e propria è stata esplosiva. Baldessari, Sol Le Witt, Yoko Ono non hanno fatto nulla di simile.

EV: Da giovane artista di Sydney, ti sei opposto con forza al coinvolgimento dell’Australia nel conflitto guidato dagli Stati Uniti in Vietnam, rifiutando di iscriverti al servizio di leva. Credo che sia in quegli anni che hai sperimentato per la prima volta un senso di autonomia intellettuale e il potere di mettere in discussione l’autorità. Penso che sia fondamentale nel tuo lavoro e che può essere considerato un filo rosso in tutti i tuoi cinque decenni di attività, fino ad oggi, e penso a delle performance come Aussie, Aussie, Aussie, Oi, Oi, Oi, [Democratic Torture], UnAustralian, tutte del 2003, o la più recente Underneath the Bitumen the Artist, 2018, delle azioni in cui hai costantemente attaccato il governo australiano in merito all’imbroglio dei “boat people” e alle politiche associate. Credo che tu sia un artista unico nel mondo dell’arte australiano per le tue schiette convinzioni politiche.

MP: Si, lo sono, ma credo che Anne Marsh abbia ragione quando suggerisce che le mie opere più politiche sono quelle estreme con il corpo degli anni ’70, perché quelle opere non erano strumentalizzate perché si rivolgevano a questioni politiche e sociali ovvie che portavano immediatamente la gente a schierarsi. Il lavoro degli anni ’70 rivela delle divisioni più profonde che non possono esser risolte coinvolgendo le persone a livello di atteggiamento. Non c’era la possibilità di predicare ai convertiti e mi sono trovato di nuovo nel dominio di forze inconsce che richiedevano una messa in discussione molto più radicale, una risoluzione più radicale del semplice prendere di mira un’ingiustizia che tutti potevano vedere. Le opere degli anni ’70 erano “al di là del limite” ed hanno prodotto un silenzio pervasivo nel mondo dell’arte australiano. Jericho è una serie performata di recente. L’estremizzazione di queste opere sembra aver diviso nuovamente il mondo dell’arte di Sydney, quindi forse i problemi che affronto in una cultura conservatrice non spariscono mai.

Le nostre culture postmoderne, però, vogliono mettere al bando la vera differenza, la vera divisione. Tutto deve essere sottoposto ai processi santificanti della legalizzazione e del “dumbing down” (banalizzare/abbassare il livello) ed addomesticamento – questo è l’ordine del giorno. Sto tornando indietro, in direzione dello status di “outsider” della performance art. L’arte politica in Australia, che è in parte basata sul mio lavoro di 20 anni, è disseccata nella sua letteralità ed impoverita dall’evidente banalità del proprio conformismo. L’arte aborigena troppo spesso significa che ora sappiamo in anticipo qual è il messaggio. Credo che la profondità della loro espropriazione e l’impossibilità di una giusta risoluzione siano consapevolmente raccolte dai nostri governi in forme che la cultura può consumare. In altre parole, la marginalità alla decima potenza e una differenza omogeneizzata come il formaggio Coon.

EV: Per Rules and Displacement Activities Part 1, 2 e 3, hai iniziato a filmare le tue performance in casa, come faceva ad esempio Bruce Nauman negli stessi anni, nel suo studio (Pacing Upside Down, 1969). Suddiviso in tre parti, Rules and Displacement Activities esplora le pulsioni innate che spingono il comportamento e le relazioni umane. La prima parte documenta il tuo rapporto con il pubblico; la seconda cerca di porre rimedio all’alienazione con la sensualità; la conclusione drammatica sonda il ruolo della famiglia nell’identità individuale. Vuoi dirmi qualcosa di più su questa epica compilazione di opere?

MP: Il lavoro di Nauman con la sua posa di non avere niente di meglio da fare non potrebbe essere più lontano dal mio lavoro di performance degli anni ’70. Non sono americano quindi gli effetti superficiali, gli stili di alienazione, l’atteggiamento che diventa forma, non sono la mia preoccupazione principale anche se questo è un “linguaggio” per decostruire l’arte come arte, che è anche importante per le mie performance interpersonali, perché stabilire la distanza è l’unico modo per situare dei risultati intensamente emotivi e strazianti. Si potrebbe dire che mi piace che Nauman finisca per filmare dei topi nel suo studio con delle videocamere a visione notturna, ma io ho un atteggiamento diverso per le particine!

Rules & Displacement Activities Parts I – III, 1973-1983 è emerso in modo incrementale, con ogni film che fa precipitare una fase successiva, man mano che il disturbo psichico diventa sempre più acuto. L’integrità formale e concettuale delle singole performance era di primaria importanza, ma le riprese filmiche determinavano sempre più i miei allestimenti, da cui il significato di “performance room” come uno spazio separato all’interno della casa di famiglia e, naturalmente, la casa stessa ingigantiva la pressione delle sessioni di performance collettive a partire da R&DA Part II.

Dovrei anche dire che R&DA 1-111, in quanto assemblaggio curato, è fortemente preceduto da 150 Programmes & Investigations 1971-1972. Ora penso che sia emerso dalla struttura di quel lavoro, perché la ripetizione/estensione è il mio modo di aggrapparmi agli stati psichici cercando di andare oltre.  Scrivo molto. Lo sai, ma forse non conosci i NOTEBOOKS Vols 1 & 2, 1971-72, ora nella collezione della Adelaide University. La frattura Menippeana di quest’opera prefigura e contiene le costellazioni abbreviate per i 150 Programmes & Investigations. Verso la fine del 1971 avevo iniziato uno studio approfondito della psicoanalisi [Freud/Reich, R.D. Laing/Marcuse] nel tentativo di comprendere meglio la natura compulsiva della mia performance art, perché l’idea che si trattasse semplicemente della “continuazione dell’arte con altri significati” era diventata impossibile da sostenere, visto che all’indomani delle prime performance del 1971-1972 stavano venendo a galla gli stati mentali che non riuscivo a controllare. La nozione di “struttura del carattere” di Reich, le sue teorie economiche della libido e, più in particolare, i suoi libri “La Teoria dell’orgasmo” e “The Mass Psychology of Fascism” mi avevano profondamente turbato. Il suo suggerimento che ci fosse una connessione tra repressione, stati mistici e struttura della personalità fascista mi aveva davvero innervosito. Inoltre, il punto di vista di Laing secondo cui la famiglia era la fonte del disturbo mi portò a chiedermi se la mia disabilità fosse stata amplificata dalla struttura e dal comportamento della mia famiglia, perché nella mia famiglia c’erano molti guasti e profondi disturbi. Questi pensieri incerti sono arrivati alla fine con “Armchop” [Cathartic Action: Social Gestus No 5], nell’agosto 1977, quando in presenza di un pubblico inconsapevole allo Sculpture Centre di Sydney, ho fatto a pezzi un braccio protesico pieno di sangue e carne.

Il tuo resoconto schematico dei tre film è accurato, ma il problema ripetuto per tutti e tre i film è stato la necessità di andare oltre la performance art, o piuttosto di reinventare la performance art come terapia di abreazione, di rompere il velo dei “ricordi schermati” e di scoprire le connessioni tra le istruzioni della performance e le situazioni della “vita reale”. Non è una cosa facile da fare quando la via d’uscita per la maggior parte delle persone che si trovano di fronte a un materiale così scomodo è quella di esibirsi a loro volta, ma è stato proprio questo problema che mi ha portato a coinvolgere la mia famiglia come “ground zero” dello scenario della performance. Stavo diventando consapevole del fatto che “il linguaggio era parte del problema” e che i disturbi psichici che mi disorientavano erano nel linguaggio, e che il linguaggio e la struttura familiare formavano una sorta di continuum disturbato. Ho iniziato a leggere Lacan solo negli anni ’80, quindi tutto il mio pensiero sul linguaggio era senza una guida. È venuto direttamente dalla mia esperienza con la macchina da scrivere come “una macchina per non avere senso”.

Il punto critico è arrivato con l’ultimo film, il più lungo e psicologicamente involuto dei tre. Le performance erano ancora una volta il prodotto di un’unica lunga sessione di circa 10 giorni nell’agosto 1977, ma il montaggio si è trascinato per altri 6 anni, mentre lottavo per risolvere le contraddizioni che emergevano attraverso le sessioni di performance. La famiglia in questo film diventa “l’orda primordiale” e il rovesciamento del padre emerge come obiettivo mitico, ma molte di queste performance producono delle scene che non possono essere facilmente comprese nel contesto della meta-psicologia freudiana, perché stavo diventando il tiranno al posto di mio padre, mentre imponevo spietatamente una crisi di confronto & performance collettiva che ci travolgeva tutti.

Totem Murder / Blue Movie, che costituisce il punto di transizione finale del terzo film, ne è un esempio chiave. La scena si svolge interamente all’interno della “performance room”, lo spazio teatrale appositamente costruito all’interno della casa di famiglia, che nel caso di Totem Murder / Blue Movie si snoda infine in una successione di luoghi all’aperto, di notte e al mattino presto, mentre prima tento una riparazione lavorando con mio padre per pulire e spolpare le carcasse e poi vagando da solo lungo un fiume nella luce del mattino presto, attraverso delle distese di nuda pietra, per costruire dei tumuli e seppellire le carcasse rimanenti.

Per tutto il terzo film, la “performance room” ricorre come uno spazio spoglio e interrogativo. È stata concepita con grande attenzione. Illuminata da 8.000 watt di luce bianca, la luce maggiore era inclinata verso l’alto e rimbalzava su un riflettore a soffitto, per poi tornare giù attraverso uno strato di garze per illuminare l’intero spazio come un mondo fluttuante e privo di ombre. Ho usato delle luci colorate per dare risalto alle stanze di ingresso e le riprese iniziano quando mio padre prende un pollo da una scatola di cartone, mentre i polli in altre scatole guardano terrorizzati, lo adagia su un blocco da intaglio su un tavolo bianco e con un coltello gli taglia con destrezza la testa. Io sono in piedi lì vicino. Entrambi indossiamo degli abiti monocromatici dai colori particolari. Prendo subito il pollo senza testa. Le sue ali sbattono senza controllo. Mi allungo per issare le sue zampe legate su un gancio da macellaio in acciaio, spingendo la carcassa svolazzante lungo un’asta d’acciaio verso il fondo della “performance room” e poi mi ritiro nell’innaturale luccichio della sala d’ingresso per raccogliere il prossimo. Mio padre lavora in modo professionale. Sa esattamente cosa sta facendo, ma il fracasso penetrante dei polli intrappolati in attesa del trattamento inizia lentamente a innervosire entrambi. Le luci verdi, rosse e blu distorcono la straziante angoscia dei nostri volti e delle nostre pose corporee, il costante tintinnio dei ganci d’acciaio sull’asta d’acciaio e lo sbattere maniacale dei polli giustiziati riempie la “performance room”. Nel film questo ritmo uditivo è stato trasformato in degli strati sonori in loop. Il lavoro della cinepresa è disciplinato, spietatamente metodico, ogni aspetto di questa scena è guardato in modo ipnotico. Mentre il climax cresce, improvvisamente sentiamo il suono tintinnante della musica di uno strip club. Jump-cut (taglio veloce). Siamo ancora nella “performance room”. Un altro momento, un altro luogo. La cinepresa riprende in un granuloso bianco e nero. L’illuminazione è fioca, indefinita. Un’intera famiglia e i suoi complici sono riuniti nella stanza in bianco e nero. Le pareti sono ricoperte da schizzi di sangue nero e un film porno in bianco e nero scorre sui muri. La madre di famiglia ridacchia nervosamente, guardando e non guardando. Il padre con i suoi baffi militari siede rigidamente, a volte sorridendo mentre l’uomo di colore penetra la donna bianca, giovani uomini, giovani donne, fratelli, mogli, fidanzati, alcuni ridono e applaudono vigorosamente, altri hanno un’aria tormentata e terribilmente tirata, si trastullano e si agitano o ridono nervosamente. Il film a luci rosse continua a scorrere, sgargiante, banale, routine automatica. Un altro taglio veloce verso una pellicola a colori. Siamo di nuovo nella performance room. La ripresa ora è un’inquadratura larga, accuratamente composta, elegiaca, distante. Il movimento finale dei corpi sull’asta d’acciaio mentre le file di polli senza testa si assestano nel rigor mortis. Il suono decrescente del sangue che gocciola, le belle e trascendenti pareti schizzate di rosso, il pavimento bianco con i suoi cerchi di sangue rappreso.

I tre film di Rules & Displacement Activities hanno occupato 10 anni all’indomani di INHIBODRESS e del mio ritorno da 9 mesi in Europa. In totale comprendono la documentazione di 60 o più performance e queste documentazioni sono ampliate da filmati e registrazioni sonore generate con il pubblico, dai performers e dai membri della famiglia. Ho intervallato film 16mm a colori, in bianco e nero e video telecine-ed ho costruito dei complessi strati di tracce sonore. L’intero lavoro può essere considerato come il mio primo montaggio nello spazio e nel tempo, ma il concetto e la tecnologia del nostro attuale, penultimo “Montage in Space & Time” e l’idea di abbandonare il mio controllo sulla cronologia, di lasciare che la registrazione del mio lavoro trovasse una nuova forma non razionalizzata andando alla deriva avanti e indietro nel tempo e nello spazio [una nuova, indipendente comprensione di “cura infinita”] non era allora disponibile in me. Sono arrivato a pensare all’intero progetto come a un vivido fallimento e trovo difficile ora, all’indomani di quegli anni, guardare queste scene, ma Rules & Displacement Activities Parts I – 111 ha cambiato il mio modo di intendere la performance art e ha aperto la possibilità a tutti i miei lavori successivi. Ha interrotto in modo profondo il mio rapporto di dipendenza dalla famiglia, ma ha anche annunciato nella mia mente la mia indipendenza come artista perché in seguito a questo progetto la nozione di influenza diventa irrilevante, non perché mi sia allontanato dall’arte internazionale [è piuttosto il contrario], ma perché la lotta implicita in Rules Project ha cambiato la mia comprensione del significato dell’arte.

EV: Hai incontrato molto presto gli artisti del Wiener Aktionismus. Negli stessi anni di questo incontro, il suo lavoro vive un progressivo processo di radicalizzazione, che crea una “controparte antipodica” di quelle ricerche radicali europee. Entrambi avete affrontato un confronto diretto con la realtà sensoriale e psichica in tutti i suoi aspetti, compresi quelli tragici, difficili da digerire e soprattutto socialmente repressi. E oggi possiamo affermare che con loro avete dato un contributo significativo alla storia di una certa accettazione della performance art “radicale”.

MP: Sì, tutto questo è vero. Ho conosciuto progressivamente il lavoro del Wiener Aktionismus dal 1973 al 1978 e in particolare R&DA 11-111, mostra l’influenza del loro movimento nel suo complesso. Il lavoro di Otto Mühl mi interessava quanto quello di Nitsch, ma ne ho assimilato l’influenza in modo critico. Lo testimonia il mio lungo saggio per il magazine Aspect nel 1978. Ho anche notato presto il contributo molto significativo di Valie Export, perché il suo femminismo introduce la nozione di personale come politico e le sue performance sostengono un impegno molto più aperto e sperimentale con il pubblico rispetto al lavoro di Mühl e Nitsch. Questo è stato molto interessante per me, perché sia Mühl che Nitsch gestiscono le dinamiche dell’“accumulazione primordiale” in modo fortemente patriarcale, motivo per cui la comune AA di Mühl ha finito per opprimere la propria comunità e perché le performance di Nitsch è fissata come teatro e rituale.

Ma detto questo, devo tracciare una linea. Avevo già stabilito la zona delle mie preoccupazioni primarie e lo stile delle mie performance allora [anni ’70] doveva tutto agli apici epifanici dell’arte Concettuale quanto alla “rottura” dell’arte, perché i parametri formali per me erano la base per governare i contenuti dentro e fuori, per gestire i confronti che avevano bisogno di un linguaggio di ordine pittorico per una risoluzione profonda, quindi le mie situazioni e i film che stavo facendo erano anche un nuovo tipo di film sperimentale. Le Black Box[es] di The Theatre[s] of Self Correction [1&2], 1979 e 1980, pur non essendo affatto dei filmati, sono anche film che chiariscono il mio pensiero strutturalista. Devo anche ribadire che le performance dei Concerti Svizzeri del 1973, ad esempio, non avevano nulla a che fare con il Wiener Aktionismus, anche se Gunter Brus aveva realizzato alcuni lavori simili ai miei nel 1969. Quando ho rivisto il video di recente, ho visto anche un uomo molto giovane che si arrovellava sulla soglia dei propri impulsi. Molto diverso dalla mia presenza performativa. È per questo che io e Marina rimaniamo simpatici. Entrambi ci muoviamo con lo stesso tipo di logica e risoluzione. Lo stesso tipo di fare o morire.

A questo punto dovrei presentare anche Rainer, perché è stata una grande influenza dopo che l’ho incontrato per la seconda volta nel 1978, e in particolare dopo aver visto una sua mostra in uno stabilimento balneare abbandonato a Baden Baden. Rimasi affascinato dalle sue “Face Farce”, ma anche inorridito dall’evidente scissione tra la fotografia performativa [la riproposta della performance “Theatre of Catatonic” di Rainer] e l’eccesso di disegno. Il mio progetto di autoritratto iniziato nel 1981 è stato un tentativo di sanare quella frattura in me stesso, perché la fotografia performativa mi assillava. La sua onnipotenza e la sua abiezione. Ho parlato a lungo altrove della griglia e del disegno di fotografie di performance fallite all’indomani di Smiling, ice melting for 24 hours, ma c’è ancora molto da dire a questo proposito, perché le mie incisioni a punta secca integrano ciò che Rainer aveva dissociato, estendendo al contempo sia la mia nozione di “The Theatre of Self Correction” della fine degli anni ’70, sia le attività di Rules & Displacement Activities della prima e della metà del 1970.

EV: Negli anni ’80, come molti altri artisti internazionali, “illusi” da questo medium, hai abbandonato la performance, concentrandoti sull’incisione e sul disegno. Puoi descrivere lo iato in cui ti sei allontanato dalla performance?

MP: Sì, posso. Dopo Smiling, ice melting for 24 hours del 1981 la performance è diventata impossibile per me, perché Smiling, ice melting for 24 hours era essa stessa impossibile, e questa impossibilità ha distrutto la mia fiducia nella performance art. È questo che intende Francois Pluchart quando parla di “rischio come la pratica del pensiero”. Questo è il rischio essenziale e inevitabile associato alla performance art, perché lo scenario della performance non può essere provato in anticipo. Se provata in anticipo, la performance art diventa teatro e l’artista si trasforma in attore. Dopo pochi minuti dall’inizio di Smiling, ice melting for 24 hours il sorriso si è trasformato in un rictus e il dolore crescente della lotta mi ha sopraffatto. Ho completato la performance in uno stato malconcio e l’immagine che avevo immaginato in anticipo era diventata un vuoto paranoico. Sono tornato a Sydney esibendo un volto fisso come un vuoto paranoico o piuttosto nel mio stato di paranoia, sono tornato a Sydney come un alieno. Ero un artista australiano “famoso” senza mezzi… con solo 10 anni di fotografie di performance da guardare. Era una situazione da cui ripartire. Inoltre, 10 anni di film avevano mandato in bancarotta le nostre finanze. La mia compagna di allora [mia moglie ora] mi disse: “sei come un drogato. Appena abbiamo mille dollari li spendi per fare film”. Ho guardato il mio archivio di foto di performance in questo stato di sensibilità ed ho iniziato a disegnare le fotografie che contraddicevano l’immagine “eroica” del performer. Stavo accedendo alla “delusione” del medium di cui parli, anche se le mie performance erano l’espressione di una necessità interiore e di un processo altamente costruito di alterazione dell’identità. Disegnare l’autoritratto, però, ha interrotto il processo di introspezione, perché il “tessuto fissato” dell’immagine fotografica indeboliva la rappresentazione in quanto tale. Dovevo aspettare e vedere, e finivo per vedere qualcosa che non aveva nulla a che fare con le fotografie.

Così, ho fatto dei disegni a partire da fotografie a griglia. Ho disegnato sulla carta per la macchina da scrivere. Ho prodotto 16 immagini “originale/copia” in 5 anni. Solo alla fine ho notato che una nuvola di grafite si era depositata su ogni disegno nello stesso punto del moncone del mio braccio sinistro. Vedendo questo per la prima volta, mi sono immediatamente mosso per cancellare queste chiazze, per ripulire il disegno, per “professionalizzarlo”, ma mi sono fermato, rendendomi conto che il disegno con la sua rozza macchia era la forma finale dell’opera. Poco dopo tutti i 16 disegni sono stati acquisiti dalla Art Gallery of New South Wales. Le mie finanze erano risanate da una scatola di dodici matite HB. Questo, di per sé, è stata una rivelazione! A partire dal 1981 e fino a oggi, ho usato la kryptonite dell’immagine “debole” per minare la configurazione del Superman e nel processo ho iniziato a costituire un nuovo tipo di immagine “forte” affermando il “debole” in relazione al “forte” [i primi disegni impoveriti erano integrati in serie con dei disegni realizzati molto più tardi, a quel punto ero diventato un artista Rinascimentale de facto e il problema del narcisismo era tornato] ed ho cominciato a ridisegnare i disegni a scale diverse e a reagire nel modo più disinibito al disegno come parte del disegnare in uno sforzo prolungato per tornare al conficcare nell’occhio/conficcare nell’io.

Poi, alla fine degli anni ’80, le mie serie di incisioni a punta secca diventano delle sessioni di performance. Lavoro ininterrottamente per giorni interi. 8-10 ore al giorno, scaricando delle enormi quantità di energia mentre incido la superficie delle lastre di rame inchiodate al muro, con pesanti aghi di carborundum inseriti in manici a tassello di mia progettazione o graffiando per ore con delle punte di diamante. Penso agli autoritratti come all’accumulo di tessuto cicatriziale e nelle fasi finali di queste sessioni non so se sto costituendo un’immagine o la sto distruggendo. Disegnare per me è diventata una delle profonde reciprocità della performance art.

EV: Cosa è successo nel 1992 per farti desiderare di tornare alla performance?

MP: Ho iniziato a travestirmi. Sono tornato come una Sposa. Tutti erano sbigottiti. Mi sono sdraiata all’ingresso di una galleria vuota dopo tre giorni e tre notti senza dormire e il pubblico che visitava la galleria ha dovuto scavalcare il mio corpo addormentato per entrare nello spazio vuoto. Credo che Ed Scheer abbia contato una dozzina di queste performance di cross-dressing (travestimento) fino alla fine degli anni Novanta. Da allora ce ne sono state altre. Esse forniscono un enorme sollievo alla mia faticosa immagine “eroica” di artista performativo. Sono l’opposto dell’arte come suicidio.

EV: Come hai detto, la Sposa è il tuo alter-ego antitetico ma complementare, la tua controparte femminile: l’anti-Mike Parr. L’opera flirta con la politica e l’estetica della trasgressione dell’identità creando un dialogo con una serie di artisti che attraversano “Il Breve Novecento” (Hobsbawm): da Rose Sélavy, alter-ego di Marcel Duchamp, e la sua “sorella tragica” Claude Cahun, alias Lucy Schwob, fino ad oggi. Vuoi dirmi di più sulla serie The Bride, che costituisce un corpus distinto, all’interno del tuo lavoro?

EV: Negli ultimi 30 anni si è molto discusso della rinascita della performance art. Qual è il tuo punto di vista al riguardo?

MP: Per me la performance art e l’arte Concettuale sono i grandi movimenti della fine del XX secolo. La performance art, in particolare, sta aprendo molteplici possibilità per il nuovo secolo che si occupa di identità, sessualità, etnie e differenze, perché la nuova arte ha bisogno di nuove modalità per suscitare le temporalità e una nuova velocità di imposizione e pensiero. Le forme che provocano la grammatologia più inclusiva sono tutte contingenti, provvisorie… Sembra ridicolo ma la documentazione della performance art è molto simile alla pittura impressionista. La stessa impossibilità di stare al passo con il flusso del tempo. La stessa aurora dell’immagine. Le stesse accentuazioni disorientanti. Disegnare e dipingere alla cieca sono per me delle forme serie. Modi impegnativi di apprendere il nostro posto nel mondo, perché ora sappiamo che “rappresentare” il mondo nel vecchio modo statico è una maniera per distruggerlo. La performance art sta diventando l’ecologia di un “principio di incertezza” appena riconcepito.

EV: Fin dall’inizio della tua carriera hai dato una certa importanza alla documentazione nel tuo lavoro, cosa che negli anni ’70 non era affatto comune. Qual è il rapporto tra la performance dal vivo e la documentazione nella tua opera?

MP: Probabilmente ho già risposto a questa domanda nel corso di questa intervista, ma la performance dal vivo per me è una forma molto particolare di rivolgersi al pubblico. Impongo la mia presenza per evitare un vedere irrilevante. Il tipo di visione che vede solo l’incompiutezza e dirigo la cinepresa 16mm o, più recentemente, la videocamera, per vedere ciò che voglio che il pubblico veda e molto spesso questo è un live-feed [fino ai Concerti Svizzeri del 1973] perché chiudere il cerchio del coinvolgimento è l’unico modo per massimizzare l’impatto corrosivo della sessione di performance. Ma la mia risposta abituale alla domanda “perché le tue performance sono così estreme, qual è il significato dell’auto-violenza”, perché la domanda stessa è una forma di agglutinazione, è: “perché la performance art mi permette di pensare”. Il mio problema, ovviamente, è che non riesco a smettere di pensare, non che prima non pensassi, ma il pensare prima produceva il bisogno impellente di performare come una sorta di sollievo, produceva in effetti l’estremizzazione che traumatizza le forme anglosassoni di rappresentazione linguistica. Ne sono ben consapevole. La mia risposta a tutte queste tue domande indica che sono uno scrittore che percepisce l’anormalità del pensiero, ma non riesce a fermare il processo del pensiero che la scrittura estende. Quindi, la scrittura è diventata una delle forme documentarie principali della mia performance art, prima e dopo. Sto pensando alla continua sovversione delle Word Situations, perché certi effetti non se ne vanno mai. Anche essi non hanno un posto dove andare. Questa è un’altra forma di The Eternal Return. L’Impero delle associazioni incatenate è il punto di partenza della visualità della mia scrittura. Un’inversione profondamente tautologica del linguaggio come segno. Massimizzazione degli effetti di superficie. Un sistema di segni pre-performativo. Questa risposta ora alla tua domanda, in quanto scrittura/pensiero, lo esemplifica. È destinata a documentare la forma di una fitta circolarità. Le performance vere e proprie, però, interrompono profondamente questo processo di pensiero compulsivo, perché arrivo a pensare in un modo nuovo, che mi piaccia o no, e la performance art fornisce, di conseguenza, il sollievo di una separazione netta. Sono di fatto strappato dal corpo con la sua lingua madre. È una sindrome Artaudiana e lo so bene. Per questo motivo, quando ho deciso di lanciarmi in un tipo di incisione primitiva, ho detto a John Loane, lo stampatore: “Rivoluzioneremo la stampa in questo Paese – questo è il nostro obiettivo”. In realtà, non avevo la possibilità di pensare diversamente, perché consideravo l’incisione come un’arte performativa. Non aggiungo altro.

EV: Molti artisti, oggi, stanno sperimentando le possibilità legate alla rievocazione di pièce storiche. Negli ultimi 15 anni, per esempio, Marina ha suggerito la re-performance come unico modo per proteggere e preservare questo medium. Qual è il tuo punto di vista in merito? Saresti disposto a far rivivere o a rimettere in scena le tue performance?

MP: Mi sembra che la re-performance sia molto vicina alla conciliazione, in altre parole un ottimo modo per assicurarsi che la gente dimentichi la performance art, perché ripetere le performance significa che la performance art diventa indistinguibile dal teatro. D’altra parte [perché nel mio caso non è possibile!] l’istruzione performativa è così estrema che ogni ripetizione diventa una prima volta traumatica, ma allora, sempre nel mio caso, avremmo bisogno di persone con un braccio solo o con la volontà di infliggersi un autolesionismo radicale per convalidare il concetto di una prima volta eterna. Marina vede le performance come degli artefatti, mentre io sono più incline alla provocazione di vuoti tra le performance [la loro semiosi del discorso Lacaniano interrotto] perché tutte le performance per me sono delle attività di spostamento, in particolare quelle performance che sono apparentemente politiche, perché la politica coinvolge l’artista tanto quanto il pubblico o “la cultura”.

EV: Perché secondo te la performance art ha ricevuto così poca attenzione storica in Australia negli ultimi quarant’anni?

MP: Perché la cultura australiana è infastidita dall’idea di una continuità radicale. La nostra “avanguardia” prende la forma dell’amnesia e tra tutte le forme sperimentali intransigenti la performance art ha bisogno di memoria, è una forma effimera dopo tutto, nonostante la documentazione; quindi, il cambio generazionale in questo Paese precipita invariabilmente in un caso acuto di “ansia da influenza”, per cui la trasmissione della memoria viene interrotta e il governo del giorno si affretta a finanziare la monocultura risultante. Per molto tempo questa “tabula rasa” è stata un’aggiunta alla politica dell’Australia bianca. Forse è ancora così. C’è qualcosa di particolare nella rapida totalizzazione della promozione delle arti Aborigene. Il 96,7% della popolazione si ritrova a cavalcare la pecora nera, perché il “naturale” è l’accidente divino del “Paese fortunato”. Ma la cultura australiana ha sempre investito in ritardo Duchampiano quando si tratta del “gene artistico”, perché tutto è sempre “perso & ritrovato” o ritrovato e perso di nuovo. Il finanziamento governativo delle arti è in realtà un modo per tenere tutti in riga e imporre un’agenda culturale dall’alto verso il basso. La Biennale of Sydney è andata in crisi quando è stato rivelato che il suo principale donatore era anche il beneficiario di un contratto governativo per la gestione dei Centri di Detenzione per rifugiati. Il procuratore generale del momento minacciò di bloccare le sovvenzioni a qualsiasi artista che si fosse opposto a questo stato di cose. Questo è ciò che chiamiamo “finanziamento a distanza”, ma questa corporeità definisce tutto ciò che riguarda la cultura australiana, dalle tavole da surf ai minerali di ferro alle miniere di carbone. Tutto è perso & ritrovato. Persino Gina Rinehart.

EV: In un’intervista del 2006 per la tua mostra al MCA, hai dichiarato di aver iniziato a fare arte perché interessato ai problemi della comunicazione. In che modo l’arte altera questa comunicazione? L’arte può risolvere questo tipo di problemi? L’arte può ancora avere un impatto sociale?

MP: Probabilmente no, perché la cultura Post Moderna fa sì che tutti questi impatti sociali siano transitori. Oggi abbiamo l’idea che l’arte e la scienza [e tutto il resto] siano co-costruite con il sociale. Questo è iniziato con l’ecumenismo nelle chiese, quando i professionisti della chiesa, sul punto di perdere la fede o di essere rinchiusi, si sono dati alla sociologia. Nel caso dell’arte e della scienza significa che sistemare le apparenze diventa più importante che risolvere i problemi e ogni rappresentazione diventa una forma di sostituzione infinita. In questo contesto sono una specie di estremista cinico. Inchiodo il mio braccio al muro perché il muro è diventato la forma della nostra ontologia. Abbattere i muri è ormai un riflesso culturale abituale, ma dove una volta c’erano i muri c’è un deserto che ci invade. Zizek lo definisce “il deserto del Reale”. Il cambiamento climatico, tanto per dire, è una totalizzazione che non capiremo mai. Nessun patteggiamento può fermare il processo di raccolta delle reliquie cattoliche.

EV: Chi sono gli altri artisti performativi che ti interessano oggi?

MP: Non cerco più di stare al passo con la performance art a livello internazionale, ma in realtà non l’ho mai fatto, o l’ho fatto solo episodicamente, e mentre gli artisti performativi erano collegati in rete negli anni ’70 erano anche isolati, perché la performance art allora era soltanto una forma emergente, solo tenuemente “internazionale”, perché il mondo era diviso tra i blocchi della Guerra Fredda e molti di questi artisti erano “rinchiusi” dalle strutture politiche interne dei Paesi in cui vivevano. L’Australia non faceva eccezione. In effetti, la Guerra Fredda era molto forte. L’economia era chiusa e il nostro settore manifatturiero aveva più in comune con la DDR che con il cosiddetto mondo “sviluppato”. Il Paese era appena riuscito a rovesciare 26 anni di governo intensamente conservatore. Il nostro accesso alla modernità era gestito e le nostre leggi sulla censura erano tra le più draconiane del mondo “libero”. È improbabile che la nuova generazione di artisti performativi australiani conosca questa storia e la struttura delle loro vite è ora molto diversa. Gli Aborigeni australiani hanno ottenuto il voto solo nel 1962 e i bambini Aborigeni sono stati allontanati con la forza dalle loro famiglie per favorire il processo di assimilazione fino al 1970. Le “differenze” a livello di aspetto, politica e comportamento sessuale erano proibite in maniera pesante, non necessariamente con la forza, ma in modo paternalistico ed erosivo. Una sorta di pressione psicologica che dovevo affrontare e resistere in modo particolare. Da allora molto è cambiato per me e per l’Australia, ma la tensione fondamentale tra la mia esperienza della cultura australiana di oggi e quella di allora non è cambiata, perché gli australiani “cambiano per rimanere gli stessi”.

Attualmente ci stiamo tutti svegliando per il cambiamento climatico ed è affascinante osservare come questo viene orchestrato, perché ovviamente ci stiamo svegliando troppo tardi e ci svegliamo per tornare a dormire di nuovo. Dodici milioni di ettari di foreste sono stati bruciati in modo irrecuperabile nel giro di 12 settimane e un miliardo di animali nativi sono stati inceneriti. Queste cifre straordinarie sono state annunciate tre giorni fa dal programma ABC 4 CORNERS. 33 australiani sono morti negli incendi. Sono morti in circostanze terribili, molte case sono andate perse e molte piccole imprese sono sull’orlo della bancarotta. Tutto questo è terribile, ma gli australiani non riescono ancora ad affrontare la verità del cambiamento climatico e in questo contesto, alla resa dei conti, la natura è sacrificabile, perché noi umani veniamo prima di tutto. Il programma 4 CORNERS ha dato tutta la sua enfasi a questo aspetto della crisi e la distruzione del mondo naturale è rimasta solo statistica.

Sembra allora che tutto debba rimanere in superficie e che preservare la superficie sia una necessità impellente, obbligata, che preclude pensieri e sentimenti più profondi. Il vuoto della natura umana non va guardato. Quindi, in risposta alla tua domanda sulla performance art, oggi sottolineo la continuità della mia pratica. Continuo a sperimentare come artista performativo nel contesto dell’implicazione dei miei temi più urgenti, ma non sono ermeticamente chiuso quando si tratta del lavoro di altri artisti e alcuni giovani artisti australiani ora mi interessano molto, perché il loro lavoro ha una flessibilità sociale e un’urbanità che il mio lavoro non ha, perché sono pre-occupato da questioni che non ammettono una vera e propria risoluzione. Sono “incurabile” sotto molti aspetti, ma l’incurabilità è il luogo in cui si annidano le questioni sociali e umane più profonde, ed è l'”incurabilità” che mi dà accesso alla profonda forma potenziale del linguaggio e del mondo. Mi sembra che stiamo rischiando di perdere l’eticità della lotta per il significato.

EV: Identification No. 1 (Rib Markings in Carnarvon Range, southeast-central Queensland, gennaio 1975) è uno dei tuoi primi lavori di connessione con il paesaggio e l’ambiente. Towards a Black Amazonian Square è il più recente: una serie ininterrotta di performance in cui intrecci vari riferimenti, rendendo omaggio a Kazimir Malevich (Quadrato Nero, 1915) e materializzando al contempo la tua risposta indignata all’attuale catastrofe ambientale che sta distruggendo la foresta amazzonica e devastando il paesaggio australiano.

MP: Ho anticipato questa domanda nella mia risposta precedente. Da tempo mi occupo della scienza del cambiamento climatico. Quando nel 2005 è uscito per la prima volta il libro di Tim Flannery The Weather Makers ero talmente turbato che ne ho comprato una dozzina di copie da distribuire a colleghi e amici. Ed Scheer ne ha beneficiato. Il libro di Clive Hamilton [un altro australiano], che ho letto successivamente nel 2007, era un resoconto ancora più devastante delle conseguenze che attendono l’umanità se continuiamo a ignorare il cambiamento climatico. Conseguenze che l’Australia sta vivendo in questo momento e che, tra l’altro, da tempo pongono l’Homo Sapiens al centro della sesta estinzione di massa delle specie su questo pianeta. Il libro di Hamilton si intitola Requiem for a Species. Why we resist the truth about climate change (Requiem per una specie. Perché resistiamo alla verità sul cambiamento climatico). La specie è la nostra.

Ieri sera mi è venuto in mente quel libro e il suo titolo. Stavo guardando il programma ABC Q & A, organizzato all’indomani del programma 4 CORNERS. Un gruppo di persone e almeno 300 vittime dei recenti incendi si sono affollate in una sala di Queanbeyan. È stato un incontro straordinario con la comunità, in cui il relatore ha sondato l’esperienza del pubblico e le opinioni dei gruppi. Dal sincero appartenente aborigeno, che sosteneva l’efficacia della “combustione culturale” [ma gli aborigeni e i loro discendenti non hanno esperienza di “cambiamenti climatici” di questa portata, perché stiamo salendo ora verso temperature mai sperimentate dalla vita sulla Terra negli ultimi 55 milioni di anni!] al solitario scienziato americano che cercava di parlare delle scoperte cumulative a nome degli scienziati di tutto il mondo e dei loro terribili avvertimenti di cicli di feedback ingestibili e di un mondo inabitabile.

Era sempre più evidente che questo pubblico traumatizzato non voleva delle proiezioni scientifiche, ma un risarcimento e la certezza che ciò non sarebbe mai più accaduto.

La fine dell’arte e la minaccia rappresentata dall’alba dell’Antropocene si sono fuse nella mia mente e la forma di questa fusione è la “pittura cieca”… pittura oltre la fine proposta dalla formazione iconoclasta di Malevich, ma una fine come la sua che è anche un nuovo inizio. Un inizio al di là della rappresentazione e dell’egocentrismo dell’Homo Sapiens. La logica conclusione del mio progetto di Autoritratto. Un nuovo naturalismo dove l’arte prolifera come gli alberi. Una doppia negazione dal nero e dalla cecità che immagina un nuovo positivo radioso. Un modo per aprire gli occhi per la prima volta. Mentre scrivo, stiamo tornando indietro a Rib Markings in the Carnarvon Ranges. È l’inizio del gennaio 1975, sto scendendo dal Kombi che è fermo al torrente, Tim e io stiamo camminando nella calura estrema di metà pomeriggio, guardando attraverso la savana lamentosa verso una lontana catena montuosa che fluttua nella canicola. Il mercurio, come si suol dire, è fuori scala e la boscaglia è piena del ronzio costante delle cicale. Cammino verso un albero morto e nero di carbone. Lo indico e Tim mi segue con la sua Pentax. Mi metto accanto all’albero aprendo la mia vecchia giacca militare, prendo un po’ di carbone dall’albero morto e inizio a segnarmi le costole. Tim scatta delle fotografie mentre io resto immobile. Non si parla molto. Tim non ha mai bisogno di sapere perché. Torniamo verso il torrente pensando di accamparci e di aspettare il fresco della sera.

EV: Come vedi, con uno sguardo retroattivo, l’evoluzione del tuo lavoro, dall’inizio degli anni Settanta a oggi?

MP: Il mio modo di vedere si estende a tutte queste domande. Ci sono mille strade, un percorso labirintico nel processo del ricordo e nell’atto della memoria. È la struttura di 150 Programmes & Investigations prodotte ad infinitum e un’immediatezza rivelatrice che cambia tutto.

EV: The Montage in Space & Time rappresenta una straordinaria visione dei tuoi lavori più audaci e impegnativi, esposti in modo volutamente episodico e sconnesso. Presenta un panorama aperto su passato, presente e futuro del tuo lavoro senza compromessi, ma è anche un nuovo modo di avvicinarsi all’opera, sfidando i confini stessi della performance come medium. Questa presentazione complica il rapporto tra tempo e spazio, tra l’azione, la sua fruizione e la relativa rappresentazione post-prodotta. Qual è il tuo punto di vista al riguardo?

MP: Hai descritto il mio punto di vista con grande eloquenza. Non ho altro da aggiungere.

EV: Cos’è la performance, secondo Mike Parr?

MP: Un puntino di sangue sulle pietre di un deserto. Essere messianici e senza vincoli. Concludere con la risposta a una domanda precedente.